Lavorare tutti, di più e meglio
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Scritto da Redazione PoD  Sabato 04 Settembre 2010 20:50   

Vogliamo segnalarvi questo interessante articolo di Fiorella Kostoris, economista e Presidente di Pari o Dispare, apparso qualche tempo fa su Il Sole 24 0re. L'articolo, pur andando oltre gli argomenti che siamo solite trattare su questo sito, ci offre una interessante panoramica che riguarda anche le donne del nostro paese, le principali escluse dal mercato del lavoro. Quali dovranno essere dunque i nodi cruciali da affrontare per il mercato del lavoro italiano e il nostro sistema produttivo?Secondo Fiorella Kostoris occorre agire, specie per rilanciare quella metà d'Italia in perenne affanno, il meridione, sulla flessibilità nel mondo del lavoro, sulla flessibilità salariale, puntando su innovazioni regolatorie che consentano di recuperare quella larga parte di persone fuori dal mercato del lavoro o potenzialmente a rischio nelle aziende in crisi.

da Il Sole 24 Ore di martedì 10 agosto 2010

Lavorare tutti, di più e meglio

di Kostoris Fiorella

In soli 15 mesi, il piano di Marchionne per l'accordo Fiat-Chrisler, siglato nell'aprile 2009, finanziato da Obama e approvato dall'80% degli operai coinvolti, nonché dai relativi sindacati, ha rimesso in funzione gli stabilimenti di Detroit che stavano per chiudere, ha incrementato la loro manodopera e i turni di lavoro, ha riportato all'utile operativo l'azienda prossima al fallimento, che ora inizia perfino a ripagare il debito ai contribuenti americani.

 

 

Certo, «non è tutt'oro quel che riluce». In particolare, la retribuzione degli addetti nelle new entries di Detroit è di 14 dollari l'ora - inferiore a quella di una babysitter italiana poco qualificata, quasi la metà del salario orario offerto alle old entries, ma è pari, come ci ricorda l'inviato a Detroit del Sole 24 Ore, Christian Rocca, nel suo reportage del 31 luglio, alla paga percepita nelle «fabbriche desindacalizzate delle auto giapponesi e coreane installate con successo nel Sud degli Stati Uniti». D'altronde, commenta un dipendente della Fiat-Chrisler intervistato da Rocca, «qual è l'alternativa? Meglio uno stipendio più basso che nessuno stipendio».

Questa semplice verità sembra sfuggire a molti osservatori e stakeholder italiani, implicati in analoghi processi di ristrutturazione e potenziamento aziendale, ideati sempre da Marchionne per l'Italia. Forse perché da noi esistono più estese, ma non necessariamente più efficienti, reti di protezione fornite dalle famiglie e dal Welfare state. Infatti una significativa, sia pur minoritaria, quota dei dipendenti delle aziende Fiat – e una parte consistente dei sindacati nostrani, dei partiti di opposizione, delle stesse forze di governo, centrale e locali – ritengono che così si attenta ai più elementari diritti e alle passate conquiste dei lavoratori del nostro paese, per i quali si chiedono invece adeguate garanzie. Come se il mantenimento o l'allargamento dei posti di lavoro non fossero precisamente questo!

I vari commentatori e protagonisti delle recenti vicende interessanti la Fiat, ma più in generale l'Italia, vista la centralità di tale fabbrica automobilistica nel complesso del nostro sistema industriale, dovrebbero però tener presente due elementi che rendono il problema italiano nel 2010 più difficile da risolvere di quello americano nel 2009.

In primo luogo, i finanziamenti dello "stimulus package" dell'anno scorso di Obama, che hanno favorito i cambiamenti avvenuti a Detroit, in Italia sono oggi impossibili, date le condizioni strutturalmente preoccupanti della nostra finanza pubblica. L'unico intervento pubblico al momento concepibile e auspicabile nel nostro paese è quello regolatorio, di fissazione di regole appropriate e di vigilanza sulla loro implementazione, non quello di bilancio. E c'è molto da fare: nel campo della flessibilità salariale e dell'adattabilità alle condizioni di lavoro, nella lotta efficace alla grande evasione fiscale, come alla piccola corruzione dei cassaintegrati assenteisti e occupati in nero, nel corretto funzionamento dell'ordine pubblico e della giustizia, nello snellimento delle procedure amministrative cui è sottoposta l'attività aziendale. I vari tipi di rigidità nel mercato del lavoro, la scarsa qualità di beni pubblici fondamentali per il suo operare, gli appesantimenti burocratici sulle imprese sono forme d'innalzamento dei costi non salariali e comportano effetti depressivi sull'occupazione, identici a quelli degli incrementi retributivi.

Secondariamente, queste considerazioni sono tanto più rilevanti quanto più si riconosce che lo scenario macroeconomico è attualmente molto diverso da quello dell'anno scorso. Allora, il sistema industriale subiva un drammatico e generalizzato shock negativo da domanda, a fronte del quale "bastava", laddove era possibile, una politica fiscale (oltre che monetaria) espansiva. Obama ha usato tale strumento con larghezza; noi abbiamo nuovamente adottato, con la cautela dovuta, ad esempio gli incentivi alla rottamazione.

Oggi, tuttavia, almeno nei settori e per le imprese che operano a livello internazionale, non c'è più insufficienza di domanda. Basti pensare che il commercio mondiale nel 2009 aveva subito un tracollo del -11,3%, mentre nel 2010 dovrebbe mostrare, secondo gli ultimi dati della Banca d'Italia, una fortissima ripresa (del +9%). Le imprese esportatrici italiane sono ulteriormente avvantaggiate dall'indebolimento dell'euro, poiché da aprile il dollaro si è apprezzato del 6% rispetto alla nostra moneta unica e lo yen si è rivalutato del 5% nei confronti del biglietto verde. Per soddisfare l'esistente domanda globale è però necessario essere competitivi, il che implica abbassare i costi salariali e non salariali delle nostre produzioni, riducendo il costo del lavoro per unità prodotta, come nel 2010 stiamo cominciando a fare, sia pure troppo timidamente, dopo tanti anni di ristagno e caduta della produttività. Dunque, la disoccupazione italiana non è più come nel 2009 esclusivamente di natura keynesiana, bensì è diventata parzialmente di tipo classico, richiedendo perciò riforme strutturali e innovazioni regolatorie quali quelle sopra delineate.

Consapevoli dei limiti della finanza pubblica italiana e dei mutamenti della congiuntura mondiale in corso, le classi dirigenti e i partner sociali del nostro paese dovrebbero affrontare con senso di responsabilità e di realismo la situazione, cogliendo le opportunità che pure non mancano. Chiedere a chi ha la fortuna di avere un'occupazione di lavorare di più e meglio non andrebbe considerato da nessuno come un oltraggio. Attrarre nella sfera dell'attività produttiva i disoccupati giovani, le donne, i meridionali, gli outsider, proponendo loro formule retributive e regolatorie meno favorevoli di quelle dei dipendenti maschi del Centro-Nord di 30-50 anni, non dovrebbe essere quasi universalmente valutato come un insulto, purché si riesca a non ghettizzarli nella permanente precarietà.

Le alternative sono peggiori, forse sono drammatiche. La delocalizzazione in Serbia, recentemente decisa da Marchionne, sta a dimostrare che la minaccia della perdita di posti di lavoro italiani è credibile, anzi è concreta e vicina. Le reti di protezione familiare e statale del Belpaese alla lunga non sono sostenibili e comunque fin d'ora pesano economicamente, socialmente, psicologicamente.

 

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Comitato Pari o Dispare